Il responsabile vendite può essere licenziato se l’azienda affida le relative mansioni al socio imprenditore.
Sei titolare di un’azienda? Il periodo non è dei migliori e hai necessità di risparmiare, magari eliminando un dirigente dalla struttura organizzativa? Se provi l’effettivo risparmiod’impresa, potrai farlo senza incorrere in alcun rischio. È la vicenda accaduta all’interno di una società di persone che, vista la magra delle casse aziendali, optava per il provvedimento estremo del licenziamento di un Responsabile Vendite il quale, in disaccordo con la decisione, decideva di ricorrere all’autorità giudiziaria competente. Come noto, il calo dei fatturati costringe gli amministratori di qualsiasi società a prendere delle decisioni importanti, al fine di evitare la liquidazione o, addirittura, la chiusura della stessa. Le disposizioni più logiche, in questi casi, ricadono sulla riduzione dei costi d’azienda: tra questi, gli elementi più facili da eliminare, stante l’impossibilità per l’azienda di vendere le proprie macchine, strumentali alla relativa produzione, sono – senza dubbio – quelli concernenti la manodopera. E il venir meno dell’obbligo di corrispondere lo stipendio ad un dirigente, quale il responsabile vendite, comporta – di certo – un grosso risparmio per le casse della società, datrice di lavoro. Il problema sta nel capire se tale provvedimento sia da considerare oggettivamente giustificato o, viceversa, illegittimo poiché fondato su ragioni pretestuose, contrarie a buona fede. Infatti, in questo secondo caso, il lavoratore avrebbe la possibilità di impugnare il licenziamento davanti al Tribunale del Lavoro per farne dichiarare la natura illecita dello stesso. Se, viceversa, l’azienda – nella persona dei suoi rappresentanti – dovesse dimostrare le effettive e realizzate esigenze di risparmio, allora non dovrà preoccuparsi di eventuali lamentele provenienti dall’ex dipendente, sotto forma di ricorsi. Pertanto, se l’ex lavoratore dovesse sostenere (e provare) che le proprie mansioni sono state, successivamente, affidate ad un socio lavoratore dell’impresa, per tale intendendosi un soggetto che, all’atto dell’entrata nella compagine societaria, conferisce non dei beni, ma la propria attività lavorativa, allora otterrebbe la dimostrazione della pretestuosità del provvedimento subito; e questo perché, nella fattispecie, l’azienda non avrebbe alcun risparmio nelle proprie casse, dovendo – alla stessa stregua – stipendiare quel lavoratore, per lo svolgimento delle nuove mansioni ricoperte. Viceversa, se dette mansioni – così come dimostrato dalla società datrice di lavoro nel caso recentemente vagliato dalla Suprema Corte [1] – venissero direzionate in capo al socio imprenditore, titolare di un esclusivo interesse agli utili d’impresa, verrebbe a realizzarsi quel reale risparmio nelle casse societarie, poiché si dimostrerebbe quell’effettiva esigenza aziendale, capace di giustificare un provvedimento come quello impugnato dal soggetto licenziato. In questo modo, la decisione presa dalla società non potrà di certo essere censurata, poiché giustificata da esigenze aziendali di parsimonia che, laddove non vagliate, porterebbero l’impresa ad una paralisi irreversibile, con conseguente perdita del lavoro da parte di tutti i dipendenti interessati. Dunque, posto che, alla luce della libera iniziativa economica privata, un giudizio sul merito delle scelte aziendali non può essere espresso dalle competenti autorità, Si consiglia, in direzione opposta, un’attenzione particolare per la valutazione dell’effettività delle esigenze imprenditoriali poste alla base di un eventuale e terminale provvedimento come quello del licenziamento, onde evitare spiacevoli e costose controversie giudiziali. Note [1] Cass. sent. n. 12823/2016 del 21.06.2016.
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